L’INUTILE RITOCCO ALL’ARTICOLO 1 DEL CODICE PRIVACY

L’INUTILE RITOCCO ALL’ARTICOLO 1 DEL CODICE PRIVACY

Anche la Legge ha una sua estetica, bisognerebbe rispettarla. Aggiungere una frase inutile a una Legge è come costruire una veranda abusiva in un edificio. Ritoccare l’articolo 1 di un Testo Unico è come sopraelevare un palazzo storico. Chissà se il nostro Parlamento accusava ancora qualche malumore per i limiti delle Regioni al Piano Casa, quando ha deciso, con la legge n. 15 del 4 marzo 2009, di sopraelevare l’art. 1 del Codice privacy. Sia detto per inciso che il Codice Privacy è uno dei rari gioielli della nostra produzione legislativa recente. Organico, coerente, robusto. Scritto da una Commissione presieduta da uno dei massimi giuristi viventi, il Professor Bianca. Peraltro, promulgato nella XIV legislatura (Presidente del Consiglio: Silvio Berlusconi): un fiore all’occhiello per la stessa maggioranza di oggi.

 

Come tutti gli articoli 1 di Testi Unici, questa norma aveva il compito di definire un valore fondamentale: Chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano. Dire Chiunque significa usare un concetto forte e chiaro. La protezione dei dati personali è il sale della nuova normativa: significa che i nostri dati sono “in prestito” alle organizzazioni che li usano per fini professionali o istituzionali, e che devono essere gestiti bene, protetti con misure organizzative e tecnologiche tali da garantirne integrità, riservatezza, disponibilità. Un principio all’altezza dell’era della tecnologia, dove sui dati personali incombono rischi di tutti i tipi.

 

E invece ecco la legge 15 del 2009, sulla produttività del lavoro pubblico e sulla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni. Questa legge ha aggiunto all’articolo 1 il seguente periodo: Le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto ad una funzione pubblica e la relativa valutazione non sono oggetto di protezione della riservatezza personale. Il che, nelle intenzioni di chi lo ha scritto, significava: i pubblici funzionari non possono farsi scudo della privacy per sottrarsi al controllo della collettività. Principio condivisibile, che non c’era nessun bisogno di scrivere, perché l’intero Codice privacy, dal primo all’ultimo articolo, precludeva già qualsiasi uso strumentale della privacy come paravento per furbizie varie. Inoltre, se l’estensore della legge 15 avesse avuto un po’ di pazienza, avrebbe scoperto che all’art. 2 il Codice privacy distingue due diritti diversi: il diritto alla protezione dei dati personali (quello dell’art. 1) e il diritto alla riservatezza (la privacy “classica”). Adesso, abbiamo il miracolo di un articolo 1 che mescola le pere con mele, che dà l’impressione di un legislatore che gioca con le norme come i bambini col Lego. Riscrive l’articolo 1 senza nemmeno leggere il 2. Figuriamoci cosa potremo pretendere dagli studenti universitari.

 

 

Diego Fulco -Direttore Istituto Italiano per la Privacy